LA FILOSOFIA DI FRONTE ALLA SHOÀH

     T.W. Adorno ha sostenuto che, dopo la Shoàh, sarebbe stata impossibile sia la poesia che ogni forma di creatività poetica, perché “dopo Auschiwitz non erano più concepibi­li l’arte e soprattutto la poesia; si poteva trasmettere sol­tanto la possibilità di crearle e anche di pensarle”.

Adorno era convinto che con l’avvento del nazismo si fosse giunti alla crisi più acuta nella dialettica cultura – barbarie, quest’ultima considerata causa del grande sal­to nella catastrofe assoluta, Auschwitz, dove, assieme alla cultura, la poesia è stata condannata a morte. “Dopo Au­schwitz, scrivere una poesia è una vera barbarie e conosce­re ed esporre il motivo per il quale è diventato oggi impos­sibile scrivere delle poesie è anche motivo della corruzione della poesia”. La poesia ha perduto il suo carattere spiri­tuale ed al poeta è rimasta una sola via di uscita: tacere. Messi da parte i lamenti, le invocazioni, le imprecazioni, Auschwitz impone il silenzio e non il canto.

Adorno, riproponendo questa tesi nel 1955 nella raccol­ta Prismi, apparentemente sembra non abbia tenuto conto dell’evoluzione della recente poesia tedesca, ad esempio quella di Gottfied Benn e soprattutto delle opere del sag­gista, poeta e filosofo Hans Magnus Enzenberger, che ne ha contestato il severo giudizio. Adorno, a sua volta, in una conferenza diffusa da radio Brema nel 1962, ha severamen­te criticato la letteratura impegnata affine al modello sar­triano, ed ha avanzato l’ipotesi che la poesia e non la poesia lirica sia la sola, la vera creatività poetica. “Non desidero attenuare la frase secondo la quale sarebbe barbarico vo­lere scrivere ancora poesie liriche dopo Auschwitz; ciò che voglio denunciare in essa, come fatto negativo, è il caratte­re impulsivo che ispira la poesia impegnata”.

Non si può negare che un grandissimo dolore non tol­lera di essere lasciato all’oblio, al contrario diventa un tormento che esige di essere rappresentato, ma non attra­verso la poesia, che è del tutto inutile quando è dedicata ai morti. Sono necessarie invece opere capaci di cancel­lare quella cultura la cui composizione è stata imposta dagli stessi assassini: seguirla diventerebbe un’offesa per la dignità delle vittime. Adorno è convinto che il tema del genocidio nazista, quando viene trattato emotivamente da coloro che rivendicano il ruolo di una letteratura impegna­ta, diventa un particolare patrimonio culturale nel quale sono messi insieme vittime e carnefici. Questo appare evi­dente, ad esempio, nella composizione musicale di Arnold Schönberg, Un surivant de Varsovie.

“Quando il nudo dolore fisico degli uomini colpiti con il calcio del fucile viene elaborato sotto la forma di una pretesa artistica, quest’ultima acquista la forza potenzia­le, anche se messa a distanza, di procurare piacere. La soluzione morale che offre l’arte di non dimenticare un secondo questo dolore scivola nell’abisso del suo contra­rio”.

Ancora nel 1962, in un articolo (Jene zwanziger Jahre, in Merkur, I, 1962, pp.46-51), dedicato agli anni venti, Ador­no ritiene illusoria e stupida l’idea che la cultura nata pri­ma di Auschwitz possa rinascere. Contrario ad ogni stili­cizzazione poetica egli ritiene che l’arte, per sopravvivere al naufragio, debba adottare uno sforzo estremo che diven­ti un vero terremoto. Esistono altri modi di creazione po­etica capaci, superando la caducità della poesia dopo Au­schwitz, di creare nuovi modi che esprimano la perennità del ricordo delle atrocità del mondo concentrazionario. Così, nel 1966, scrive nell’opera Dialettica negativa: “La sofferenza che continua merita di essere espressa proprio come il martire ha il diritto di urlare; è il motivo per cui ha potuto essere falsa l’affermazione che dopo Auschwitz nessuna poesia era in grado di potere essere scritta”.

Nel 1967, chiedendosi se l’arte poteva essere tonifi­cante, nell’articolo Ist die Kunst heiter? (nel Suddeutsche Zeitung, 15-16 luglio) spiegava che non la si può ridur­re a una puntura tonificante per uomini di affari stanchi. È invece necessaria una arte sperimentale, che proceda verso quanto resta ancora sconosciuto. “La frase secondo la quale non si può scrivere poesia dopo Auschwitz non è da considerare tale e quale, ma è sicuro che, dopo questo, perché questo è stato possibile e perché questo rimane possibile all’infinito, non può essere presentata nessuna arte che sia divertente”.

Di fronte alla rottura della civiltà causata dallo ster­minio nazista, la dottrina di Adorno è progressivamente cambiata. Certo il suo giudizio, enunciato nel 1949, è sta­to provocatorio, possiamo dire fuori dal coro di quanti con­cepivano il dovere della memoria limitato alla creazione di monumenti, canti, cerimonie, musei. Adorno ha richiama­to la necessità di creare nuovi strumenti letterari contro le forme e le tradizioni che minacciavano di ripercorre­re gli stessi cammini abituali. Rimane fondamentale la sua protesta antibarbara, che Camus aveva sintetizzato in modo efficace: “Il nostro secolo è caratterizzato non tanto dalla necessità di costruire un nuovo mondo ma da aver suscitato un pentimento, per il quale occorre restituirgli il suo linguaggio”.    

              

Santo Arcoleo